Radio Robida

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Spazi sonori

on: 08/04/2023
by: Dora Ciccone

SPAZI SONORI

Rubrica nata per Radio Robida come esercizio esplorativo

08-04-2023 ATELJE

Entriamo oggi in uno spazio non così famigliare, non così facile da leggere e da contenere nei suoi suoni. Più che entrare, usciamo. 

Ci allontaniamo dalle piazze e dalle case, per cercare ai margini di un paese uno spazio silenzioso, ma come ormai abbiamo capito, il silenzio, ovvero il concetto astratto di silenzio, di assenza di suoni, non esiste … tanto meno in natura. Ogni passo, ogni respiro riempie e anima lo spazio, il nostro corpo dialoga con ciò che si trova difronte, alla ricerca di un equilibrio, accoglie quello che viene offerto e si silenzia, lascia spazio a ciò che accade, alle possibilità che un luogo offre.

Ci incamminiamo lungo il sentiero che un tempo era la via d’accesso al paese dalla valle, e la via di fuga dal paese, una mulattiera che oggi è avvolta dagli alberi e costeggia vigne abbandonate, imponenti muretti a secco e eleganti edifici in disuso, fienili o kozolci come nel dialetto sloveno ci si riferisce a questa specifica architettura rurale. 

Quattro grosse colonne di pietre, imponenti e apparentemente inamovibili, connesse tra loro da leggeri e fragili listelli di legno, che si reggono a vicenda in un perfetto sistema di incastri. Qui veniva fatta asciugare l’erba una volta tagliata e conservata al riparo fino a che non sarebbe servita per riempire le stalle. Il tetto un tempo di paglia riparava il prezioso raccolto dalla pioggia, a poca distanza dalla casa, si delegava a questi luoghi una parte indispensabile dell’economia, del ciclo produttivo sul quale si reggeva la sussistenza del paese. 

La cura della terra, degli alberi e degli animali, la raccolta del frutti e dei prodotti che ne derivavano e la loro rielaborazione e conservazione permetteva di disporne tutto l’anno di quanto serviva per vivere in un paese che riusciva a produrre quasi tutto ciò di cui aveva bisogno.

Qui troviamo lo spazio per liberare i nostri sogni e desideri: di cosa abbiamo bisogno oggi per vivere o sopravvivere in un paese?

Sono crescita avendo ben presente cosa potevo e non potevo fare, cosa potevo e non potevo desiderare e scontrandomi ripetutamente con questo limite, contrattando termini e tempi, per comprendere infine che i limiti sono posti per essere superati. 

Così usciamo dai confini del paese per dare spazio ai desideri, per chiederci cos’è che vogliamo? non si tratta più di cosa possiamo e non possiamo, ma ci confrontiamo ora con una potenzialità del luogo del quale anche noi facciamo parte.

Così queste architetture e strutture del paesaggio abbandonate, terrazzamenti, frutteti e kozorlci si presentano come spazi d’azione, di sperimentazione, di gioco, laboratori di idee dove sporcarsi le mani per dare forma ai nostri sogni. 

Si presentano come spazi potenziali, ci interrogano: di cosa abbiamo bisogno? 

Quando un po’ di anni fa leggevo le parole di Virginia Woolf, ero convinta dell’attualità del suo pensiero, ovvero che ciò di cui abbiamo bisogno fosse ancora una stanza tutta per sé - e una rendita che ti garantisse il tempo e lo spazio per scrivere, o in modo più ambio, creare.

In queste parole ho trovato conforto e risposte nella ricerca di uno spazio da abitare, un tensione e curiosità che mi ha sempre mosso verso luoghi sconosciuti, in qualche modo abbandonati e poco famigliari.

ma oggi mi chiedo se questa può essere una ricerca individuale? se l’abitare non debba essere anche un bilanciare una dimensione individuale e una collettiva. 

Un spazio si riempie di idee, pensieri, che in potenza possono essere privati ma forse ad un certo punto non ci bastano, per dare forma a tutto ciò usciamo dalla dimensione privata, dalla stanza privata, per cercare nella condivisione di trasformare in realtà i sogni che condividiamo e negoziamo con una comunità.

Forse la stanza tutta per sé diventa un po’ stretta o solitaria, un po’ silenziosa. Cerchiamo quindi un po’ di confusione e d’azione.

Torno ora alle parole di Virginia Woolf per attualizzare anche la dimensione economica dell’abitare: di cosa abbiamo bisogno? oggi forse possiamo permetterci di dire ad alta voce che la qualità della vita non si misura su quanto produciamo e guadagniamo, che questa frenetica visione imprenditoriale non giova a noi personalmente e neanche a un più grande ecosistema e che per vivere e godere di ciò che si produce bisogna anche avere il tempo e l’energia per farlo. 

Non so però se la rendita possa oggi garantirci questo. Anche se riduciamo al minimo i nostri bisogni, non penso che siamo in grado di delegare a qualcun altro la garanzia economica della nostra sopravvivenza. Cresciamo con un senso di responsabilità nei confronti di una società e di un ambiente, tutt’altro che garantiti e solidi, dei quali ci dobbiamo prendere cura e con i quali prima o poi dovremo confrontarci. Partecipiamo così alla vita politica del presente per alimentare sogni e desideri realistici, per poter negoziare direttamente i nostri limiti. 

Non abbiamo bisogno di tanto, ma non vogliamo dipendere da nessuno. 

Uso il plurale perché penso di rivolgermi a qualcuno che troverà qualche risonanza nelle mie parole e per calare questa riflessione in una dimensione politica dell’abitare, dove non possiamo più permetterci di concepire gli spazi di vita intorno al singolo ma sempre in dialogo con ciò che ci circonda. 

E forse perché al plurale siamo anche disposti a rischiare e sognare un po’ più in grande.

Kozolec, Topolò

11-03-2023 CUCINA

Nel corso delle giornate abitiamo diversi spazi, la casa, la macchina, i mezzi di trasporto pubblico, lo spazio di lavoro o la scuola, il supermercato, la cucina della nonna che ci prepara il pranzo o lo studio del dentista che ci ospita per poco più di mezz’ora.

Ma quali di questi spazi hanno per noi una dimensione di intimità, di quotidianità e possono quindi contenere i nostri umori e desideri? la macchina forse e lo spazio del lavoro potrebbero prestarsi ma l’unica vera e propria tana è la casa, la casa privata, intima e riservata alla nostra persona. un privilegio che non tutti hanno e che sicuramente abbiamo conquistato nel tempo. Le famiglie si sono rimpicciolite e le case ingrandite, oggi concepiamo le case con alcuni spazi condivisi e alcuni privati, ovvero la camera o un bagno, ma non credo sia sempre stato così. 

Un cucina e una camera dove tutti mangiavano e dove tutti dormivano, un unico ambiente da scaldare, la spazio minimo per ripararsi dalle intemperie e dal buio della notte. C’era poco di privato nelle case che oggi occupiamo e rimodelliamo a nostro piacere. 

Questa immagine non rappresenta niente di ideale o su cui fantasticare nell’immaginarci oggi la vita nei paesi di montagna, immersi nel silenzio e nella natura. Le case una vicina all’altra erano colme di bambini che giocavano, uomini che urlavano e donne che cucinavano. La vita quindi si svolgeva altrove, fuori, tra le vie del paese e nei boschi, questo era lo spazio della liberà, della fantasia che oltrepassava i confini fisici del paese per creare luoghi immaginari, campi da calcio e piste da sci in mezzo al bosco, piscine dove nuotare e villaggi fatti di capanne di legno dove giocare per giorni interi.

La ricerca di spazi di gioco muove la fantasia e iniziamo così a pulire le soffitte e spostare i mobili per costruire tende in mezzo ai soggiorni. Crescendo perdi questa abitudine ma mi piace pensare che in realtà è questo che accende il tuo sguardo e sorriso quando ti siedi, ti guardi intorno e trovi l’energia per trasformare la stanza, riorganizzi lo spazio in base al tuo stato d’animo. cogli un potenziale e lo metti in atto.

Lo spazio di gioco oggi non è più una tenda di coperte o una capanna di legno: la scrivania dove un registratore e un microfono mi mettono in collegamento con amici e sconosciuti a cui racconto i miei pensieri o una cucina condivisa dove inventare ricette e condividere i pasti con nuovi amici. 

Ma per iniziare a dare un po’ di struttura a questo programma mi fermo con i miei pensieri sciolti e poco comprensibili . vorrei cercare di mettere in relazione questi spazi mentali con i luoghi del paese che abbiamo occupato e plasmato sui nostri bisogni, quali sono oggi gli spazi privati e quelli comuni di una famiglia che abita il paese?

Cominciamo dalla cucina, dove ancora oggi sopravvive una forma di convivialità fatta ci cibo, chiacchiere, ospitalità e amicizia. dove lo spazio intimo si apre all’incontro, alla casualità e alla trasformazione, delle persone e degli spazi. così aggiungere un posto al tavola può stravolgere la nostra giornata o diventare una pratica quotidiana

Immaginiamo una cucina rumorosa, dove lo spadellare si orchestra con le storie delle persone che qui si incrociano, per un giorno o ogni giorno. cosa hai fatto oggi, come stai…chi sei….con le mani sporche e gli aromi speziati che si disperdono nell’aria cuciniamo piatti che parlano lingue diverse, non sono mai perfetti o finiti e difficilmente riusciremo a rifare uguali, con la stessa proporzione di umore, distrazione e contaminazione.

Quella che ascoltiamo è la cucina di Topolò, oggi la chiamiamo IZBA, come nelle case ci si riferiva alla stanza a fianco alla cucina, dove tutta la famiglia mangiava e che in inverno si scaldata grazie alla pec, la stufa in maiolica dove si cucinavano anche il pane e i dolci.

Izba è quindi uno spazio condiviso, per la famiglia del paese ma è anche il salotto buono dove accomodi gli ospiti di passaggio per raccontargli i tuoi sogni e giochi. qui oggi nascono idee e torte deliziose, per nutrire la fantasia di chi vi entra.

Il prodotto della fantasia, come quello della creatività e della invenzione, nasce da relazioni che il pensiero fa con ciò che conosce [...]. È Evidente che non può far relazione tra ciò che non conosce, e nemmeno tra ciò che conosce e ciò che non conosce. […] Si può invece stabilire relazioni tra una lastra di vetro e un foglio di gomma, per esempio. Sempre ammeso che l'individuo conosca sia il vetro che la gomma. Che cosa può nascere nel mensiero da una simile relazione? si può pensare ad un vetro elastico o a una gomma transparente. Questo è un pensiero fantastico, proprio perché non mi pare che ci sia oggi un vetro elastico come la gomma. L'immaginazione si mette in moto di conseguenza e mi pare di vederlo questo vetro elastico... che cosa succede se lo tiro? niente? sarà come uno strato d'acqua limpida? L'immaginazione comincia ad immaginarlo, a vederlo. La creatività può pensare a quealche uso proprio giusto per lui. L'invenzione può pensare alla formula chimica per produrlo.La fantasia quindi sarà più o meno fervida se l'individuo avrà più o meno possibilità di fare relazioni. Un individuo di cultura molto limitata no può avere una grande fantasia, dovrà sempre usare i mezzi che ha, quello che conosce, e se conosce poche cose tuttalpiù potrà immaginare una pecora coperta di foglie invece che di pelo. E' già molto, sotto l'aspetto della suggestione. Ma, invece che continuare a fare altre relazioni con altre cose, si dovrà ad un certo punto, fermare.

- Bruno Munari, Fantasia 1977
Izba, Topolò

11-02-2023 INTRO

Nel tempo costruiamo relazioni con gli spazi, famigliarizziamo con le vie che circondano la casa, impariamo ad arrivare da un punto all’altro e a tornare indietro e i più fortunati sviluppano un senso di orientamento per muoversi liberamente nel modo. 

A questo proposito, vorrei fermare un pensiero che porto con me da un po’ di tempo, nato approfondendo il lavoro di uno dei maestri della rivoluzionaria scuola del Bauhaus. 

Lazlo Moholy nagy presenta questa idea in un testo dedicato ai materiali e alle possibilità dell’essere umano di sviluppare i sensi che ci permettono di interagire con il mondo e in particolare del tatto. Moholy-nagy oltra ai cinque sensi parla di un “sesto senso”, che a suo parere è proprio di chi vive a contatto con la natura e possiede quindi una nozione speciale dell’orientamento nello spazio e nel tempo.

Mi sono spesso chiesta cosa voglia dire con queste parole e come sia giunto a questa conclusione che sembra dare per assodata. Nelle sue parole, questo pensiero sembra radicarsi in una rilettura delle forme del sapere umano a partire dalle forme presenti in natura:

All technical form can be deduced from forms in nature. (...) Every bush, every tree, can instruct him, advise him, and show him inventions, apparatuses, technical appliances without number. 

- L. Moholy-Nagy, The New Vision and Abstract of an Artist 1947, 29
L. Moholy-Nagy, The New Vision and Abstract of an Artist 1947, 29

Evidentemente questa frase mi colpisce perché ne colgo il senso e la fondatezza nella mia esperienza personale. E, forse, leggerlo in saggi accademici e farne argomento di discussione nobilita questa tesi e anche il mio stare qui. Forse.

Mi rendo conto che sentire e interagire con un ambiente “naturale” - che ha molto di costruito e regolamentato - ma è proprio di un grado di spontaneità e selvaticità che creano una distanza rispetto all’ambiente urbano, ne fanno un ambiente protetto e per questo anche conservativo.  

Qui riconosco e ricerco le forme dell’abitare.

Riprendendo il pensiero iniziale, ovvero che lo stare nel modo ci educa agli spazi che impariamo a conoscere e riconoscere e rispettivamente noi addomestichiamo. E in questa frustrante e spesso immaginaria ricerca di un ambiente domestico, di una casa, si orienta una speciale bussola dentro di noi, che ci muove anche irrazionalmente verso alcuni luoghi fisici - e immaginari, guidata da curiosità e intraprendenza, e come un vero magnete ci attrae verso luoghi sconosciuti dove lentamente ci insediamo e da lì riposizioniamo le nostre coordinate, rieduchiamo i nostri sensi - potrebbe dire Moholy Nagy.

Concretamente cerchiamo strutture già note con le quali ordinare il nostro spazio, il nostro microcosmo. Strutture mentali, che descrivono spesso il nostro stato sentimentale, il nostro spazio intimo. Ma forse questo è già un pensiero più difficile da fermare… o forse è proprio quello che cercherò di fare in questi episodi.

Quello che vorrei fare e per il quale chiedo un po’ di fiducia nelle modalità - mi rendo conto che non è del tutto chiaro neanche a me e non ambisco a renderlo comprensibile a chi mi ascolta, ma magari spero di trovare delle corrispondenze in altre esperienze e nel susseguirsi delle puntate far emergere dei punti di contatto che cercherò di afferrare e fermare.

Scuola vecchia, Topolò